Gret Haller
Recensione su «Il pensiero politico, Rivista di Storia delle idee politiche e sociali» , Anno XXXIX 2006, n. 2, pp. 344 - 347
da Walter Ghia
Su Europa e Stati Uniti Gret Haller ha scritto un libro denso e avvincente, che si misura con le sfide storiche maturate negli ultimi quindici anni collocandole sullo sfondo di una prospettiva storica di lungo periodo. Si avvertono le tracce di un'esperienza ricca e composita: da un lato gli studi di diritto e di storia delle idee, dall'altro gli importanti incarichi politici e diplomatici che l'autrice ha ricoperto. Gret Haller è stata Presidente del Parlamento svizzero, poi rappresentante svizzero presso il Consiglio d'Europa, e più recentemente, negli anni dal 1996 al 2000, mediatrice per i diritti umani in Bosnia- Erzegovina. Nel volume, comparso ora in traduzione italiana (ed. originale, Berlin Aufbau-Verlag GmbH, 2002), non c'è l'ostilità antiamericana che affiora negli scritti dei nostalgici del socialismo reale o nei nemici della modernizzazione. Non per questo l'affermazione della diversità dei due Occidenti ­ argomentata in chiave non tanto economica, ma prevalentemente giuridica ed etico-politica – cessa di rappresentare una tesi ben forte e netta, ed anzi sottilmente provocatoria.
Stati Uniti ed Europa non sono diventati diversi da oggi, dalla strage delle Twin Towers, o dalla seconda guerra in Iraq. Sono diversi da sempre: la diversità è rimasta sopita ed occultata negli anni della Guerra fredda per la necessità di enfatizzare gli aspetti comuni, ma è riemersa con forza dopo l'implosione dell'Urss. E una diversità che affonda le radici nella differente risposta ai conflitti di religione iniziati nella prima età moderna: nel 1648, l'anno della pace di Westfalia, «in Europa si affermò lo stato, oltre Atlantico, la religione» . Sia pure attraverso eventi che in parte concludevano, in parte avviavano un lungo processo storico «in Europa il sistema giuridico doveva affrancarsi da presupposti religiosi e culturali e la religione doveva spostarsi dall'ambito pubblico alla coscienza personale di ciascuno» (p. 27). A ben riflettere su queste tesi di Gret Haller si potrebbe dire con altro linguaggio e terminologia che non appartiene alla tradizione politica americana quel passaggio decisivo della storia delle idee in Europa efficacemente riassunto da Anna Maria Battista nell'espressione «assolutismo laico» : una visione che, mentre afferma con forza il potere statale in quanto garante dell'ordine, al tempo stesso lo spoglia di ogni giustificazione metafisico-religiosa. Giustificazioni di tale natura ­ tradizionali nelle monarchie gratia Dei – si erano infatti rivelate del tutto inaffidabili e anzi cause di conflitti insanabili, perché esposte alla pluralità e alla variabilità delle fedi, all'incertezza dell'opinione soggettiva. Rispetto a ciò gli emigrati in America avevano preoccupazione opposta: impedire che lo stato minacciasse la religione. Con il tempo, in tutti e due i casi ­ negli Stati Uniti e in Europa – si vennero realizzando forme di separazione tra chiesa e stato, ma con spirito ed obiettivi diversi: in Europa per impedire l'ingerenza della chiesa nello stato (che si fa garante dell'ordine contro la minaccia delle guerre di religione), negli USA per assicurare la piena libertà dallo stato delle confessioni e delle sette religiose.
Le rivoluzioni settecentesche non prescindono da queste origini. La fondazione della nazione statunitense che segue alla guerra d'Indipendenza è «in ultima analisi di tipo religioso: da un lato esiste.. una tolleranza religiosa quasi illimitata...dall'altro lato però il riconoscersi in una (qualsiasi) religione è... per così dire una premessa per l'integrazione nel popolo americano» (p. 35). Sul continente europeo lo stato nazionale moderno si costituisce invece polemicamente rispetto alle religioni esistenti, anche se nel far ciò è d'altro canto costretto a ricercare altre strade per favorire l'integrazione. E infatti, già con la Rivoluzione francese si assiste alla stipula di «un patto reciproco fra due parti che storicamente hanno radici del tutto diverse. Da un lato la repubblica, dall'altro la nazione» (p. 113), da un lato l'individuo dell'illuminismo, spogliato dell'appartenenza ai «corpi» , dall'altro l'identità culturale come forza di coesione comunitaria.
Secondo Gret Haller, le conseguenze che ne derivano sono di importanza decisiva: «...la rivoluzione americana non ha portato alla fondazione di uno stato bensì alla fondazione di una nazione» . Negli USA la forma statale propria del continente europeo non si è mai stabilita in senso pieno: gli statunitensi «non conoscono un'identità politico-statale, ma solo un'identità nazionale» : e proprio, «per mancanza di un'identità politico statale negli Stati Uniti esiste la necessità di riconoscersi in comunità volontarie» . In sintesi: mentre «l'Europa per rispondere all'individualizzazione insita nei processi di modernizzazione ha scelto per l'integrazione la forma statale, gli Stati Uniti hanno scelto invece la comunità» . Tutti e due i modelli sono liberali, hanno a cuore la libertà, ma la realizzano in forme diverse. L'individuo statunitense, rispetto all'europeo, gode senz'altro di maggiore libertà dallo stato, ma fruisce d'altronde di minore libertà rispetto alle comunità. Le posizioni sono invertite per un cittadino dell'Europa occidentale. Quel che fa la differenza non è la quantità totale di libertà e di vincoli dell'uno e dell'altro, ma è la diversa distribuzione della natura dei vincoli e delle libertà. L'individualismo americano è così radicale (se si considera rispetto allo stato) che, per compensazione, costringe, a livello sociale, ad una dedizione di tipo comunitario senza la quale si patisce l'esclusione. I canali attraverso cui identificarsi sono plurimi, ma qualcuno di questi deve essere attivato e vissuto con fede quasi incondizionata, sia che si tratti di una chiesa, di un'associazione, di un gruppo etnico. Lo stesso individualismo che rifiuta lo stato (o che lo relega a funzioni minime), cercando però integrazione nelle comunità dei gruppi e delle associazioni, è anche all'origine di una diversa tradizione giuridica: mentre il diritto europeo è incentrato sulla nozione di legge e persegue attraverso questa un ordine di pace, il diritto statunitense si costruisce a partire dalle rivendicazioni di minoranze, individui e gruppi, ed è in prevalenza costruito a partire da una cultura del contenzioso (p. 59). Da ciò deriva altresì che «negli Stati Uniti la morale prende la strada diretta dell'applicazione del diritto nei tribunali, mentre in Europa essa confluisce innanzitutto e soprattutto nella legislazione» (p. 63).
Questo ritratto della civic culture americana in termini che ne accentuano la dimensione comunitaria, vissuta attraverso forme d'integrazione non statali (che però convergono a sostegno di una forte identità nazionale con chiari accenti religiosi), costituisce un aspetto assai delicato. La forma stato in Europa tante volte ha chiamato a suo sostegno la comunità, e anzi talvolta ne è stata inghiottita. Come ha ammesso la Haller medesima, anche in Europa, già a partire dalla Rivoluzione francese, ci si avviò ad attingere, e in forma potente, alla dimensione comunitaria, coniugando il piano delle istituzioni (la «repubblica» ) con la nazione culturale, che intervenne così a sostenere lo stato con una forte componente identitaria. E certamente l'Europa ha sviluppato forme di delirio comunitario apportatrici di tremendi lutti e distruzioni. La forma statale concepita in origine dall'illuminismo in quanto repubblica ha cavalcato il senso d'identità della nazione culturale fino alle «forme estreme e parossistiche dei nazionalismi del novecento» (p. 116). Ciò è tanto vero che coma nota la stessa Gert Haller « il nazionalismo in Europa, a suo tempo, ha preso il posto delle religione» (p. 106).
D'altra parte, non è questione di mostrare che la nostra storia europea – «così gravida di colpe» - è più pura e più nobile. È questione di prendere atto che è diversa: «L'Europa ha le possibilità migliori se dice chiaramente che cosa pensa di fare e su quali principi si poggia...Soprattutto non ha alcun senso far nascere una questione morale dalla contrapposizione delle due idee. Al di là e al di qua dell'Atlantico esiste una diversa storia delle idee, per entrambe, vecchia di secoli. Le due concezioni si scontrano oggi più frequentemente e intensamente solo perché il mondo è diventato tanto più piccolo» (p. 154). Non è neppure soltanto questione di voler preservare una diversità europea come valore in sé. Il fatto è che la differente struttura delle forme europee della socialità non consente l'importazione del modello statunitense, se non al prezzo di conseguenze autodistruttive: l'Europa non può rinunciare all'identità politico statale perché nel nostro continente «la struttura che garantisce la coesione sociale è di tipo statale» . Se si abbandona o si indebolisce troppo la forma statale, in Europa non prende corpo qualcosa di analogo agli Stati Uniti, ma ci si avvia verso una regressione. L'individuo, «liberato dalla forma statale, cerca un vincolo...[e, nel caso degli Europei,] il posto della forma statale potrebbe essere preso non solo dalla religione, ma anche dal nazionalismo» (p. 147). In Europa la pace sociale (tra gli individui) e quella politica (tra gli stati) sono il risultato di forme di rinuncia alla sovranità: prima da parte dell'individuo a favore dello stato, poi da parte degli stati a favore di una configurazione più comprensiva che è diventata l'Unione Europea. Al contrario , nella tradizione politica americana l'idea della rinuncia alla sovranità (sia individuale, sia nazionale) ha un significato esclusivamente negativo. Se trasferita in Europa"la crescente obiezione alla rinuncia alla sovranità ­ obiezione che è intrinseca secondo Gret Haller al modello statunitense, sia con riguardo alla politica interna sia con riguardo alla politica estera – equivarrebbe con il tempo a un rifiuto sempre più ideologicamente motivato della forma statale, indirettamente tuttavia anche a un crescente rifiuto del processo d'integrazione europeo, in quanto la rinuncia alla sovranità individuale è inscindibilmente legata alla rinuncia alla sovranità statale che costituisce la base di questo processo di integrazione. In altre parole: nella misura in cui avviene un'americanizzazione dell'Europa e nella misura in cui questa confluisce in una ideologia della destatalizzazione, nel lungo termine essa toccherà non solo la concezione europea della libertà, ma anche l'ordine di pace europeo» (p. 146). E il rischio risulta tanto più alto se si pensa ai paesi dell'Europa orientale di recente integrati nell'Unione: in questo caso la diffidenza verso la forma statale è in effetti assai forte perché si confonde con l'ostilità all'ancora recente passato comunista, mentre la fedeltà alla nazione è tuttora vissuta come un forte valore politico, in quanto ha costituito una barriera e un veicolo di mobilitazione in opposizione all'impero sovietico.
Quel che è concretamente possibile per gli Europei è continuare sulla strada iniziata dall'Europa occidentale dopo il «45, procedendo in forma via via sempre più decisa verso la secolarizzazione della nazione, vale a dire attuando la progressiva separazione tra identità politico statale e identità culturale.
Da un lato da parte dei vecchi stati nazionali crescono le deleghe all'Unione Europea, dall'altro alcuni poteri vengono ceduti a sottostrutture statali, mentre l'identità nazionale torna ad essere un aspetto che ha sempre più funzione prevalentemente culturale, e che deve lasciarsi alle spalle la pretesa ­ di per sé senza uscite e per questo apportatrice di conflitti insolubili ­ di portare a coincidenza la forma politico statale e la comunità culturale: «...l'organizzazione di uno stato europeo in sottostati o unità ancora più piccole non poggia sull'idea del gruppo o della comunità che qui abbiamo definito romantica in senso esclusivo, ma ...poggia sull'individuo in quanto esponente del popolo sovrano, individuo che dispone di un'idea statale multipla distribuita verticalmente: pertanto questo modello può promuovere decisamente la separazione dell'identità politico statale da quella culturale nell'Europa Occidentale» ( p. 174).
Anche in vista delle sfide che si prospettano a livello internazionale la radicale secolarizzazione della politica propria del modello europeo rappresenta, secondo Gret Haller, la mentalità più congeniale alla risoluzione di problemi che si presentano sulla scena con una forte carica ideologica. Infine la forma statale europea intesa come elemento terzo e non orizzontale rispetto agli individui è anche la più adatta a porre premesse di democrazia fuori d'Europa: il modello dei gruppi e delle minoranze in competizione può funzionare in una società che si è formata attraverso l'immigrazione, e in relazione a ciò ha trovato una sua forma specifica di inclusività. Rischia invece di perpetuare e persino di restaurare le «gabbie etniche» laddove le diversità sono radicate in un passato più o meno remoto e contengono al loro interno la memoria, mitica e / o realistica, di conflitti antichi e recenti.
Come ho detto all'inizio non siamo di fronte ad un pamphlet, ma ad un libro pensato. Si potrebbero anche considerare esagerate le tinte con cui vengono marcate le distanze tra Europa ed USA. Si potrebbe anche obiettare che l'autrice liquidi un po' troppo sbrigativamente l'ipotesi secondo cui buona parte delle differenze tra i «due Occidenti» sia da ricondurre non a dimensioni culturali e istituzionali, ma alle diverse posizioni di potere occupate rispettivamente dagli Usa e dall'Europa. Però difficilmente si possono saltare a pie' pari le considerazioni che convergono nella tesi di fondo: sul continente europeo la forma statale deve conservare forte consistenza, anche se per farlo non può che trasfigurarsi, procedendo verso la secolarizzazione della nazione fino a realizzare un'identità statale multipla distribuita verticalmente.
Proprio per la nitidezza e la chiarezza con cui si snoda l'analisi della Haller ci si sente sollecitati a porre interrogativi ulteriori sulle implicazioni e sugli aspetti problematici che sono interni alle sfide storiche affrontate nel libro.
Risulta chiaro che, se la diversità dei «due Occidenti» è identificata in due differenti «storie delle idee» , il terreno di confronto che mette oggi a dura prova la relazione transatlantica è la politica estera. E a tal proposito non so se risulti del tutto plausibile la divisione del lavoro secondo i due «scenari separati» descritti dalla Haller: uno militare «dove recitano solo gli Americani sulla base del principio del diritto della forza» , l'altro politico dove recitano gli Europei, sulla base del principio della «forza del diritto» , promuovendo trattati, cooperazione, vincoli sempre più controllabili con l'obiettivo di realizzare gradualmente e progressivamente la riduzione del peso della forza militare. L'interrogativo che si pone non riguarda tanto la plausibilità di una politica estera idealmente e fattualmente diversa da quella praticata dagli USA. Riguarda prima di tutto l'esistenza di prerequisiti per una politica estera europea. Questo aspetto ­ non solo dalla Haller – è troppo frequentemente eluso attraverso formule edulcorate. In realtà, se si vuole una politica estera europea bisogna coerentemente spingersi olre, fino porre il problema della socializzazione politica degli Europei. Una politica estera su scala mondiale, comunque condotta, sia pure la più pacificamente orientata nelle intenzioni, ha un'incidenza troppo forte sulle risorse, sulla coscienze, sulle prospettive di vita per poter essere affidata a processi decisionali che non passano attraverso un processo di identificazione tra governanti e governati in quanto europei. Non è possibile pensare ad un soggetto politico che ambisca ad una politica estera efficace senza sviluppare alla sua radice una forma di coesione e di collaborazione sociale almeno pari per intensità a quella che è stata propria degli stati nazionali. Queste considerazioni non implicano che venga fatta propria la prospettiva degli euroscettici. Mi auguro anzi che essi abbiano torto. Tante volte nella storia i tentativi di trasformare una forma storica sono falliti. Però altre volte le vecchie forme politiche sono state superate o si sono evolute: un'Europa davvero realizzata sarebbe qualcosa di straordinario e assolutamente nuovo perchè sarebbe plurietnica e multilingue, sarebbe la forma estrema dell'inclusività. Il percorso verso un demos europeo è in effetti irto di ostacoli e non conosce precedenti. Però, rispetto al passato, sono diverse anche le tecnologie, gli scambi, le possibilità di comunicazione, l'orizzonte stesso della vita. Dobbiamo fare diversamente dallo stato nazionale (unica lingua, unica scuola,ecc.), ma non possiamo fare nulla senza far tesoro dell'esperienza dello stato nazionale: una grande politica estera senza una socializzazione politica che le sia correlativa è pura illusione. Anche per l'Europa l'identità non è data, come per tutti gli stati che vivono nella modernità, va costruita. E naturalmente vale per L'Europa, anche sul piano dei rischi, quel che vale per tutti i soggetti politici. Un soggetto politico storicamente attivo non è un'essenza angelica. La socializzazione politica che suppone, per quanto costruita su valori nobili, fondati su modelli universalistici, non è mai innocua e si genera attraverso processi che non sono facilmente controllabili
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